Recensione die Meistersinger Teatro alla Scala

Recensione die Meistersinger von Nürnberg Teatro alla Scala

Il Gatto di Norimberga

di Stefano Furger

Milano, 30 marzo 2017. Alla fine dell’opera Sachs afferma: “finisca pure in polvere il Sacro Romano Impero e ci resterebbe sempre la sacra arte tedesca!”. È quanto ha letteralmente realizzato il grande regista Harry Kupfer con la messa in scena dei die Meistersinger von Nürnberg (i maestri cantori di Norimberga) al Teatro alla Scala: opera che mancava da Milano da quasi trent’anni. La vicenda si dipana difatti nell’immediato secondo dopoguerra a Norimberga, nella Chiesa di Santa Caterina, ridotta in un rudere dai bombardamenti degli alleati ed in fase di ricostruzione, avvolta quindi da praticabili e ponteggi. Pregevole scena unica (di Hans Schavernoch), a valere per tutto lo svolgimento dello spettacolo, che tuttavia, proprio perché montata su un praticabile ruotante, ha offerto una serie infinita di angoli e vedute suggestive. Ben calibrate, a tal fine, le luci di Jürgen Hoffmann e d’atmosfera i video di Derek Gimpel. L’azione di questa commedia (un unicum nella produzione wagneriana, unitamente al giovanile das Liebesverbor, il divieto di amare) tratta in sintesi della gara tra maestri cantori per aggiudicarsi in premio la mano di Eva, figlia dell’orefice Veit Pogner. Vincerà la tenzone contro il favorito Sixtus Beckmesser l’outsider Walther von Stolzing, innamorato di Eva e da questa corrisposto, con il decisivo aiuto di Hans Sachs. La regia è risultata lineare e, in definitiva, fedele e funzionale al libretto. Apprezzabile il fatto che Beckmesser non sia stato solo ridotto alla solita macchietta, come da lunga prassi teatrale, ma gli sia stata conferita anche una dignità, quale cantore portatore di una poetica, certamente datata, ma comunque nobile e legittimata da una lunga tradizione. In questo, ha molto aiutato la prestazione dell’ottimo Markus Werba (Beckmesser), dalla figura prestante, sobrio e brillante nella recitazione, quanto rifinito nel canto. Ma prima di riferire del cast, occorre spendere qualche parola sulla punta di eccellenza di questo spettacolo, ossia la direzione d’orchestra. Daniele Gatti ci ha regalato una concertazione di questo capolavoro bellissima e di rilucente splendore. Wagneriano di lungo corso a livello internazionale, la sua lettura si inserisce con ogni evidenza, ma in modo del tutto personale, nel filone liricizzante il teatro di Wagner riconducibile a Herbert von Karajan. Ed ecco che sin dal preludio, i toni si sono fatti sì solenni, ma anche morbidissimi, senza retorica, accompagnati da un suono lucente e trasparente, che ha messo in evidenza il fine contrappunto della pagina. In generale, la narrazione è stata sobria e la scelta dei tempi è apparsa naturale. L’incedere dell’orchestra è stato cristallino ma allo stesso tempo, là dove occorreva (vedi l’entrata dei Meistersinger), il suono si è inturgidito, pur restando soffice. La cura della timbrica è stata calibratissima, come ha dimostrato, tra l’altro, il preludio del terzo atto, risultato delicato e vellutato. Magistrale, la conduzione dei cori e l’accompagnamento dei cantanti, intorno ai quali egli ha saputo costruire una nuvola soffice di suono, che mai li ha sovrastati, mettendone in evidenza, laddove ce n’erano, le qualità degli interpreti. Commovente è stata, a tale proposito, la conduzione del quintetto della prima scena del terzo atto. Ovviamente, l’attenzione di Gatti non è stata riservata solo agli episodi più noti, quelli più attesi, ma a tutta la partitura è stata dedicata una cura minuziosa, che ha consentito una narrazione di unitaria continuità. Ciò è stato possibile anche grazie al concorso dell’orchestra del Teatro alla Scala, in stato di grazia, e del coro, perfettamente preparato da Bruno Casoni, che si è coperto di gloria nella difficile baruffa della fine del secondo atto e ha rubato la scena nel secondo quadro del terzo atto. Michael Folle è stato Hans Sachs. Animale da palcoscenico dotato di una voce baritonale bella e morbida e di una delicatezza coloristica fuori dal comune, egli ha plasmato un maestro cantore eccellente: autorevole, un poco scorbutico, ma allo stesso tempo sensibile ed umano. Molto concentrato nel monologo del terzo atto. A fronte di questo ritratto, poco importa se il cantante sia arrivato alla fine dell’opera un poco stanco. Di Werba, si è già detto: vale però la pena di ricordare la pregevole voce, uniforme in tutta la gamma e sempre morbida. Jacquelyn Wagner (Eva), dalla bella figura e dotata di voce piccola ma ben emessa, ha reso bene la giovanile freschezza del personaggio. Efficaci e ben cantati sia il David di Peter Sonn, sia la Magdalene di Anna Lapkovskaja. Di lusso, infine, il Pogner di Albert Dohmen. Purtroppo, vocalmente parlando, il buco nero della serata è stato Erin Caves (Walther von Stolzing) che, con voce corta, timbricamente ingrata, povera di armonici e inficiata da varie mende di ordine tecnico, ha letteralmente massacrato il Preislied, al punto tale che, chi scrive, avrebbe preferito veder vincere la gara, almeno per questa volta, dal povero Beckmesser. Applausi per tutti, con particolari acclamazioni per Gatti e Volle.

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