I protagonisti sono quasi tutti veneti: il compositore Filippo Perocco, il librettista Luigi Cerantola, Roberto Bianchin e il regista Damiano Michieletto” I protagonisti sono quasi tutti veneti: il compositore Filippo Perocco, il librettista Luigi Cerantola, Roberto Bianchin e il regista Damiano Michieletto
L’alluvione del 1966 nell’immaginario colpì solo Firenze, ma nelle stesse ore l’onda sommerge Venezia, il mare entra in Laguna. Il 4 novembre, a cinquant’anni esatti, la Fenice inaugura la stagione con Aquagranda, un’opera del nostro tempo. A parte il direttore Marco Angius, i protagonisti sono tutti veneti: il compositore Filippo Perocco, il librettista Luigi Cerantola, Roberto Bianchin, dal cui romanzo dell’alluvione è partita la commissione, e il regista Damiano Michieletto che è responsabile del processo di creazione, una sorta di supervisore alla maniera tedesca nel rapporto tra musica e testo. La scena è una grande parete di vetro che lentamente si riempie d’acqua. Poi si romperà invadendo il palco, mentre la musica ispirata a tratti agli antichi canti di lavoro lagunari, scolpisce gli stati emotivi.
Fortunato canta: «No ghe xe scampo». Gli altri scappano ma lui, col figlio Ernesto, «mi go da restar parché me lo comanda el cor», e si arrampica sui tetti. «In Aquagranda il dialetto non ha una valenza folcloristica o caricaturale, è quasi un fattore melodico», dice Michieletto, «il veneziano ha una sua cantabilità, si parlava quando ero bambino e mi sta appiccicato addosso quando parlo l’italiano. Nella nostra opera appartiene a questa umanità popolare, ma viene trattato in modo asciutto e non pittoresco».
Scrivere teatro musicale in dialetto era una prassi del ‘700. Ma non era affatto abituale. Il primo esempio «moderno» che viene alla mente è I quattro rusteghi in cui Wolf-Ferrari rimastica Goldoni. Arrivò in Italia nel 1916, otto anni dopo la prima a Monaco di Baviera. L’operazione si ripeté alla Scala con Il campiello.