Recensione Trovatore Karajan Bonisolli Leontyne Price Obraztsova 1977

Questo Trovatore di Karajan è raramente ricordato, al confronto con quello anni Cinquanta con la Callas e quello di Salisburgo che piace tanto a Pinkerton (a me un po’ meno, ma piace sempre).

Riascoltata oggi, questa registrazione del 1977 ha certamente lacune, ma anche molti pregi.

Anzitutto, la direzione. Questo è il Trovatore che Karajan può definire come totalmente “suo” (quello degli anni Cinquanta era costruito attorno alla Callas). La sua direzione è una delle più belle che si possano sentire su disco. Karajan si lascia dietro i battisolfa anonimi alla Erede, oppure certi direttori banalmente ritmici e fracassoni, creando una vera selezione di antiche miniature medievali, immergendo la vicenda in un clima cavalleresco e arcano paragonabile a quello lancinante del Tristano di Wagner. Già l’inizio è notturno, felpato, scandito. L’attenzione al colore e al suono è massima. Insomma: una delle tante letture davvero rivelatrici che Karajan aveva saputo escogitare negli anni Settanta.

Con un cast del livello paragonabile al suo Don Carlo, o anche all’Aida, questo sarebbe stato un Trovatore capolavoro. Non lo è invece, per colpa di alcuni cantanti.

Bonisolli per esempio è una catastrofe. Aveva già cantato con Karajan, ma la sua scelta appare veramente inspiegabile. Un tenore che sarebbe stato adatto alla smaltatissima atmosfera karajaniana, avrebbe potuto essere Veriano Luchetti, che proprio con la Emi effettuer ottime incisioni. Ma non era certo un nome “di richiamo”. Bonisolli, a quanto pare, lo era. Ma all’epoca era un Bonisolli che già si era singolarmente indurito rispetto a 10 anni prima, anche nei famosi acuti, che comunque erano di facilità più apparente che reale, tendenzialmente spinti com’erano. Il timbro era qualunque, il legato poco curato, l’emissione non solidissima anche se vagamente corretta o quasi, il talento interpretativo poco spiccato. Cosa ci faccia qui è un mistero, dato che vocifera fin dal “Deserto sulla terra”, mentre dopo è anche peggio. Ogni tentativo di addolcire la voce gli estorce suoni strani, soffocati, senili. Ma nemmeno i declamati sono soddisfacenti, perché la voce manca di squillo e nitidezza, e la scansione non ha imperiosità. Spara qualche Do decente nella pira, ma poco altro ci sarebbe da aggiungere. Non è un Manrico, è un tenore che svolge un compitino provinciale.

Voglio sperare che nessun fan dello sfortunato cantante trentino voglia leggermi, giacché molti di loro hanno un contegno ben poco rispettoso delle critiche. Sono dei fanatici della peggior specie.

Leontyne Price viceversa, nonostante qualche recensione negativa, secondo me in questo ruolo, uno dei suoi più famosi, ha ancora moltissimo da dire. Si può far notare che il registro basso ormai è opaco e velato, ma in un mondo discografico per cui sono passate le Leonore della Gencer e della Carena, dobbiamo scandalizzarci per una Price in leggero declino? Il settore medio-alto della voce è intatto e lucente. La pronuncia è sempre esotica, le agilità forse non sono fosforescenti ma l’incisività e la passionalità dell’accento è tutta da ascoltare. Una Leonora degna di Karajan.

Così come degno antagonista è il Conte di Luna: Cappuccilli sfodera il solito timbro fuori dal comune, facile e pieno di suono. Difettucci? Qualche acuto lievemente “sparato” e percussivo, anziché tondo e morbido; oppure, qualche mezzavoce affetta da opacità. Cosette minuscole, in una raffigurazione appassionata e impetuosa, veramente verdiana.

Elena Obraztsova invece passa solo accanto al suo personaggio, tramutato in una scostante megera come spesso capita. All’epoca, la cantante russa stava facendo cose egregie alla Scala. Qui, si comincia a percepire l’ostentazione che avrebbe preso il sopravvento negli anni successivi: i facilissimi acuti sono ancor più sottolineati, al punto che la spinta costante li rende metallici, a volte vicini all’urlo, spesso tendenti all’intonazione crescente. Viceversa i suoni bassi sono un gorgoglio unico, ingolati, intubati, pigiati nelle cavità toraciche. Una cantante che sembra cantare con tre voci. L’interpretazione non esula, dicevo, dal cliché della zingara furente.

Migliore Raimondi come Ferrando, sicuramente molto più ben cantato di quanto non sia la norma (esattissime le agilità, squillanti gli acuti), anche se il timbro cominciava a baritonalizzarsi. Inoltre, il personaggio è ben raffigurato, ma costellato di svariate parole sbagliate, come all’inizio, quando “i veroni della sua cara” diventano “della sua MAGA” (nessun editing?).

Piuttosto accettabili gli altri, buono il coro.

 

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